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Sogno in una scuola giapponese

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Gym_class_in_Japanese_schoolStanotte ho sognato questo. Talmente bello che lo racconto tutto.

Sono in Giappone. Mi sono preso un paio di settimane di vacanza e ho deciso di farle a scuola. La scuola è una scuola molto giapponese, anche con delle stranezze. Ma sfido: è un sogno!

Il mio contatto ovviamente è l’amico Flavio. Lui mi ha indirizzato verso questa scuola. Tutto su un piano con le classi con interi lati vetrati. Tipo un documentario famoso che avevo visto su delle scuole elementari giapponesi che è talmente bello da far piangere.

Comunque sono qui. La scuola è tutta multiculturale. È tipo la scuola di Fabio Viola di Sparire? No, perché quella non è una scuola ma una scuola di lingue straniere a distanza, per telefono. Non c’entra niente, insomma, ma secondo me ci sono delle parentele da sogno.

È il primo giorno e mi presento. La prima ora è un’ora di qualcosa. Forse di orientamento. Forse nemmeno c’è una prima ora. Ma sento da una classe di musica che stanno cantando una canzone tradizionale africana. La cantano tutti insieme. E la canzone nel ritornello ha un «Oh, Yeeeeeeeeah» che è identico a quello di “Pressure Drop” di Marley. Allora finiscono di cantare e il prof, che è un tipo un po’ fosco ma appassionato, sulla trentina ma vestito da uno di quindici anni più vecchio, un po’ Scott Walker, dice «Aspettate, aspettate» con aria scocciata, ma ormai tutti se ne vanno. Allora vado lì e parlo prima in inglese, poi capisco che è italiano e allora in italiano gli dico «Complimenti, cantano in Giappone canzoni africane, che bello!». Lui mi guarda dall’alto in basso ma me ne frego. Anzi quando la gente è così provo tutto un gusto nel fare finta di non accorgermene, e arrivare a quel punto in cui loro cambiano atteggiamento e dentro di sé pensano “Be’, simpatico questo qui. Un po’ naïf, ma simpatico”, e io capisco tutto ma faccio finta di niente, sorrido e basta, e faccio la spalla degli stronzi magnanimi. Ma comunque gli dico ma «Quell’oh-yeah lì è il caso di una canzone soltanto, oppure è un pattern che ritorna? E di che paese? Sub-sahariano o Corno D’Africa», e lo dico come se le alterative fossero solo quelle. Lui mi dice «Certo che è un pattern», poi una cosa sul Sarawi (che non c’entra niente), e poi dice «Guarda, proprio il centro dell’Africa». «Il Congo?» «Il Congo, esatto».

A questo punto incrocio altra gente nei corridoi perché è cambio dell’ora. Non sono giapponesi giapponesi: sono un po’ misti e il modo è tutto strano. La scuola è un po’ incasinata. È un po’ Battle Royale? No, non sono arrabbiati. Sono più gente del DAMS alle superiori. Ma il tutto ha anche un tono un po’ steineriano.

Mi perdo via. Perché io alla fine non so niente. Non è un sogno con le istruzioni ferree. Allora incrocio nei corridori Flavio che mi prende in giro (ma non ha un lavoro?) mentre cazzeggia con amici che lavorano lì. È un po’ l’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo, quello tutto rosso di Gaetana Aulenti? Forse un po’.

Vago per le classi alla ricerca della mia, finché non mi spingono dentro a una classe che sembra una classe di educazione fisica. Sono tutti appoggiati alle pareti ai lati, e ce ne sono due impettiti davanti al prof. Io mi unisco agli impettiti e dico «onegaishimasu» invece di dire «sumimasen» o «gomennasai», cioè «posso averlo gentilmente», invece di «scusi» o «mi spiace», più o meno. Mentre lo dico me ne accorgo e penso “Ma che cazzo hai detto?” ma la cosa non sembra preoccupare nessuno. Tantomeno il prof, che è campano ma non napoletano. Me ne accorgo perché prende a parlarmi in italiano anche lui, e ha l’accento forte. Mi chiede cosa faccio in Giappone. Dico che ci sono già stato e avevo voglia di tornare. Mi chiede quanto mi fermerò. Dico «Una settimana», e anche nel sogno penso “Così poco?! Ma che senso ha?”.

A quel punto mi tolgo d’istinto le scarpe sedendo su una panchetta sotto la prete vetrata, e infilo calze e scarpe sotto la panchetta. Sono lì a piedi nudi. Subito tra me e me dico «Cazzo no, i piedi nudi, il Giappone, che schifo!». E uno degli appoggiati al muro lì svaccati tipo Saranno Famosi (nel senso del telefilm) mi dice, mentre io per fare presto penso di mettermi le scarpe senza calze, «Anche quando non mettiamo le calze ci guardano malissimo, lo detestano!», ma lo dice ridacchiando, come se non gliene fregasse niente, come se pensasse che i giapponesi sono strani, e io detesto questo atteggiamento, sei in Giappone e lo rispetti.
Io penso “No, no, no!”, e allora cerco di rimettermi calze e scarpe, per farlo devo mostrare i piedi, i giapponesi non li vedo ma li percepisco, sono nella stanza, qualcuno c’è, non sono per niente contenti. Frugo sotto la panchetta e mi trovo in mano un mazzo di calze, non le mie due, e non ci sono due calze appaiate da indossare, nel mazzo. Tra le infinite sfumature diverse di blu, decido di optare per due blu vicini, chiari, verso l’indaco. Metto le calze, rimetto le scarpe, e il prof sta dicendo «Ma come vanno le cose lì con la Lega, porco***, che è un finto partito messo lì apposta per fare finta di non esistere», o qualcosa del genere. E io dico «No no, guarda che sono di Varese, te lo posso dire, fidati, li conosco bene: la Lega è finita. Ha i presidenti di Regioni ricche del Nord, va bene, ma è finita, la base, la gente, non c’è quasi più niente…»

E il sogno è finito.

Mi sono svegliato bene. Sfido: ero stato in Giappone!


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