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Botte da orbi, sordi e muti: il “femminicidio” non è un problema culturale

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medea07C’è qualcosa che mi infastidisce del dibattito sul “femminicidio”. Più di qualcosa. C’è un sacco di roba che mi fa sbuffare ogni giorno. E adesso provo a raccontarla.

Per prima cosa io credo che presso gli Homo sapiens la violenza ci sia, e non abbia a che fare con le condizioni di emancipazione delle femmine. Questa violenza, che la società cerca di limitare ma che c’è, è in genere esercitata più nei confronti degli uomini che delle donne. Ma i maschi sono il genere tendenzialmente più forte per genetica, oltre che per cultura, e anche nella società più paritaria che possiamo immaginare saranno sempre eventualmente in grado di far valere questo divario muscolare. Il punto è un altro, e non riguarda le botte. Le botte più o meno letali sono diventate il centro del problema anche perché il tutto viene descritto da un termine pericolosamente vago.

femminicidio
s.m.(pl. -di )

Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte
propr. Uccisione di una donna o di una ragazza.

ETIMOLOGIA Comp. di femmina e -cidio
DATA 2006.

Ah, le parole troppo nuove, che jattura! Il significato proprio del termine è quello di omicidio di una femmina d’uomo, ma il senso cui dovremmo fare sempre riferimento è quello lato, di azione quotidiana del maschilismo in ogni sua forma, per controllare, limitare, opprimere le donne.

Ma siccome siamo un paese molto cattolico, la morte ci piace tantissimo. La morte per la morale italiana è sacrificio, è dono, è salvezza, e va su tutto come il nero. Di più, quando racconti una storia e c’è il morto, la storia ha già un perno solido intorno a cui ruotare: c’è il dramma, ci sono le lacrime, c’è uno spostamento tangibile e forte tra prima e dopo. Così, senza che a quanto pare ci siano dei numeri particolarmente significativi a dare evidenza di supposte impennate di omicidi di donne, adesso che il paese sta affrontando il proprio maschilismo con una certa costanza, sono arrivate le morti a valanga, i volti tumefatti, i casi di violenza terribile, e il dibattito si è trasformato in una passerella di indignazione d’emergenza. Questa passione per la morte e il pessimismo assoluto è una costante della nostra cultura. Il tema “donne uccise” viene subito dopo un periodo in cui, nel 2012, non si riusciva a parlare di crisi senza che saltassero fuori i “suicidi degli imprenditori”. Adesso non si vedono più. Avranno smesso di uccidersi? Si saranno stufati gli scandalizzati di allora? Boh.

Spesso i temi sociali acquistano una forma narrativa comoda, riconoscibile, e i mezzi di informazione tendono ad adottarla tutti nella stessa maniera, finché non prende il posto della sostanza, del tema e dei fatti. Per quanto possa essere una modalità efficace, questo rimane un problema.

Intendiamoci, io sostengo da sempre che la moda sia un nome che diamo all’affermarsi delle idee vincenti. Non che queste idee debbano essere per forza positive, sia chiaro, ma in genere la loro capacità riproduttiva si porta dietro degli elementi di verità, e positive lo sono. Se un’idea e un atteggiamento diventano giusti, e si fa a gara a indossarli e farli propri, va bene, significa che funzionano. Non essendo mai stato un confessore, non mi occupo di convincimenti profondi: mi interessano i comportamenti. Anche sul maschilismo.

E allora mi interessa che si distingua tra chi ammazza una donna e chi, quando parla di donne, per prima cose dice se sono belle o no, o imbruttite o imbellite. Nel primo caso è una persona che ne uccide un’altra, prima di essere un maschio che uccide una femmina, e soprattutto è un problema di sicurezza e sociale, non culturale. Nel secondo caso è una persona che non se ne accorge, probabilmente, ma sta mettendo al loro posto delle donne, in automatico, senza nemmeno farci caso, come se si grattasse una puntura di zanzara su un polpaccio.

So che dopo questi mesi di dibattito può sembrare strano, ma io sono abbastanza convinto che l’omicidio delle donne non sia in alcun modo un problema culturale. Il problema culturale è quello di un paese che si preoccupa di chi passa per primo dalle porte, ma dove la responsabilità non è quasi mai nelle mani delle donne. In Italia ci sono donne che rifiutano di andare da una ginecologa perché preferiscono il maschio (pensate al contrario per la prostata), ma non ci sono quasi mai donne che dicano agli uomini cosa devono fare. Il punto è quello, ed è importantissimo.

Cambiare questa prospettiva anche di poco vorrebbe dire cambiare la vita quotidiana di milioni di donne e uomini italiani. Se invece noi perdiamo tempo a dire quanto il problema della violenza sia culturale, quanto i maschi debbano riflettere, quando sia importante fare autocritica con tutte queste morti annunciate; se i giornali passano il tempo a alternare storie di omicidi in casa a testimonianze di firme più o meno autorevoli tutte contrite sul podio a raccontare il loro momento maschilista; se non capiamo che ci siamo dentro tutti, tutte, anche le bambine che sparecchiano mentre i maschi vanno sul divano a vedere la partita, allora stiamo solo perdendo tempo. E non c’è da perdere tempo, perché lo sviluppo è complesso e controverso, ma è l’unico modo per liberarsi di questa tradizione italiana, quella per cui le donne sono delle belle fighe da corteggiare, ma non devono rompere i coglioni.

Maschilisti lo siamo tutti, e assassini quasi nessuno. Vediamo di non far dire a tutti «io non c’entro», quando si sentono interpellati su una questione ben poco attuale e ben poco emergente come quella degli omicidi delle donne, perché il rischio è grosso: chi scende da questa barca con la coscienza pulita rispetto a un morto, poi non risale in punta di piedi per riflettere su quanto non abbia cambiato mai i pannolini a notte fonda ai propri figli.


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